Caravaggio: opere

indice

HOME | biografia | opere | personaggi | glossario

Ragazzo con il canestro di frutta
1593-1594
Olio su tela; cm 70 x 67
Roma, Galleria Borghese

giovine

Il giovane «fruttarolo», che emerge dallo sfondo in penombra stringendo tra le braccia una straordinaria cesta ricolma di frutta, è uno dei primi e più celebrati quadri dipinti a Roma da Michelangelo Merisi, universalmente noto come il Caravaggio.

Dopo quattro anni di apprendistato a Milano nella bottega di Simone Peterzano, sul finire del 1592 Michelangelo si trasferisce a Roma, dove trova ospitalità presso un prelato marchigiano, Pandolfo Pucci, per il quale copia quadri di soggetto religioso, e che in seguito soprannominerà “Monsignor Insalata” a ricordo dei magri pasti che gli propinava. Ben presto, però, gli si presenta l'opportunità di entrare nella bottega di uno degli artisti più quotati della scena romana: Giuseppe Cesari, detto il Cavalier d’Arpino. Il Bellori ci informa che nella bottega del Cavalier d'Arpino in Campo Marzio, Michelangelo viene «tolto alle figure» e «applicato a dipinger fiori e frutti», ovvero quelle nature morte alla maniera dei maestri fiamminghi, per esempio Jan Brueghel (Vaso di fiori), che da qualche tempo erano diventate di gran moda tra i collezionisti romani.

D'altra parte, il genere era un tema caro anche agli artisti dell'Italia del nord. Vincenzo Campi, per esempio, il più noto di una dinastia di pittori cremonesi, in quadri come la Fruttivendola testimonia i risultati raggiunti dal naturalismo lombardo nella seconda metà del Cinquecento; cos“ pure i contemporanei Ambrogio Figino (Natura morta con pesche, foglie di vite e piatto d'argento) e la pittrice Fede Galizia (Fruttiera di ceramica con uva, prugne e pere), che al genere della natura morta dedicheranno interamente la loro attività.

Quel che distingue però la splendida natura morta del Caravaggio da ogni altro quadro di analogo soggetto, è il realismo con cui l'artista ha saputo rendere la consistenza delle mele, dell'uva, dei fichi o delle ciliege, ognuno dipinto con la stessa accuratezza e «manifattura» che l'artista riservava alle figure, come afferma Vincenzo Giustiniani nel suo Discorso sulla pittura.

Il Ragazzo con il canestro di frutta di Caravaggio entra poi a far parte della collezione del potente cardinale Scipione Borghese, nipote del papa Paolo V, per vie in qualche modo avventurose. La tela figura, infatti, insieme al cosiddetto Bacchino malato, nell'elenco dei beni del Cavalier d'Arpino sequestrati dagli esattori pontifici nel 1607, in esecuzione della condanna dell'artista per porto abusivo d'armi. I quadri confiscati in quella occasione vengono poi donati in blocco da Paolo V al nipote il quale, collezionista tanto dotato di fiuto quanto privo di scrupoli, aveva ormai accumulato un vero e proprio tesoro nelle stanze del suo splendido palazzo.

Bacchino malato
1593-1594
Olio su tela; cm 67 x 33
Roma, Galleria Borghese

bacchino

Caravaggio dipinge questo piccolo quadro, noto con il nome di Bacchino malato, nei primi anni del suo soggiorno romano. Sono gli anni in cui il giovane pittore frequenta la colonia di lombardi, tra i quali conosce Onorio Longhi e di cui rimarrà per sempre amico. Nel frattempo entra nella bottega del Cavalier d’Arpino, uno dei più famosi pittori attivi a Roma alla fine del Cinquecento, per il quale dipinge le sue prime tele con delle nature morte, tra le quali probabilmente anche il Ragazzo con il canestro di frutta e il Fanciullo che monda un frutto.

Ma i rapporti con il maestro si guastano presto e Michelangelo, come racconta il Bellori, «provò a stare da se stesso, e fece alcuni quadretti da lui nello specchio ritratti. E il primo fu un Bacco con alcuni grappoli di uve diverse ma con grande diligenza fatte». La descrizione del biografo si adatta bene a questa tela, nella quale Caravaggio ha dato i tratti del suo volto al giovane seminudo con le labbra livide e il corpo gracile, tanto patito d'aspetto e di salute incerta da sembrare convalescente da una lunga malattia. Nel proporre il titolo di Bacchino malato per il quadro della Galleria Borghese, Roberto Longhi notava infatti che ai tempi in cui sarebbe stato eseguito Caravaggio era appena stato dimesso dall'Ospedale della Consolazione, dove era stato ricoverato in seguito a un misterioso incidente, forse il calcio di un cavallo, fatto questo che giustificherebbe l'aspetto sofferente del giovane raffigurato.

È quindi assai probabile che sia lo stesso Caravaggio questo Bacco adolescente, coronato d'edera e con in mano un grappolo d'uva come è consuetudine del dio, sorridente e malinconico allo stesso tempo. Ma al di là di ogni riferimento a fatti ed eventi della vita dell'artista, la scena ha forse un significato più profondo. Davanti al Bacchino, lo strano parapetto di pietra in primo piano non presenta alcun bassorilievo o fregio classico e, cos“ nudo e spoglio, ha fatto pensare a una lastra tombale. L'atmosfera di morte imminente, oltre che dal colorito terreo del dio, sembra inoltre accentuata dalle foglie ingiallite e ormai quasi secche della frutta posata sulla pietra. Poiché fin dai primi secoli dell'era cristiana il dio pagano dell'uva viene spesso considerato una sorta di personificazione di Cristo, nel cui sangue salvifico si tramuta il vino nel mistero eucaristico, Caravaggio avrebbe quindi dipinto una allegoria della sua Passione.

L'espediente del ritrarsi negli attegiamenti e con le vesti più diverse, viene utilizzato più volte dal Caravaggio in questo periodo, e non soltanto, come hanno ipotizzato alcuni, per l'impossibilità di pagarsi dei modelli. È il caso del Giovane morso da un ramarro, di cui si conoscono due versioni conservate nella Fondazione Longhi di Firenze e nella National Gallery di Londra, in cui l’artista sperimenta un metodo per riprodurre sulla superficie piana della tela la tridimensionalità della visione naturale, attraverso l’uso dello specchio che semplifica ed esalta l’immagine. Questo interesse per gli specchi e i fenomeni di rifrazione, si nota anche nella cura con cui Caravaggio dipinge in questi anni numerosi vasi di vetro in cui si riflette la luce proveniente da un finestra. È il primo accenno a quello studio del «lume naturale» che caratterizzerà tutta la sua opera.

La buona ventura
1594 circa
Olio su tela; cm 115 x 150
Roma, Pinacoteca Capitolina

bonavventura

In questo celebre quadro del Caravaggio, una zingarella scaltra predice la buona sorte a un giovane spavaldo e, mentre gli legge la mano, gli sfila con destrezza l'anello da un dito. L'azione si svolge contro un fondale neutro su cui si stagliano i due protagonisti, sapientemente disposti su una sorta di immaginario proscenio a recitare, con gesti e sguardi eloquenti, le tradizionali parti dell'ingenuo presuntuoso e della furba ingannatrice. «La zingaretta», scrive infatti Giulio Mancini, uno dei primi biografi del Caravaggio, «mostra la sua furberia con un riso finto nel levar l'anello al giovinoto, et questo la sua semplicità e affetto di libidine verso la vaghezza della zingaretta che le dà la ventura e le leva l'anello». Il genio "registico" del Caravaggio, la sua capacità di creare una sottile atmosfera psicologica senza magniloquenze retoriche, che diventerà la cifra inconfondibile del suo stile, si dispiega su questa tela ormai maturo e perfettamente consapevole dei suoi mezzi espressivi.

Si tratta infatti di uno dei primi quadri in cui il pittore, raffigurando la realtà dal "naturale", inizia ad applicare il suo rivoluzionario linguaggio artistico ai moti dell'animo, come dimostra anche un'altra sua celebre opera realizzata nello stesso periodo, I bari. La testimonianza del Bellori ci informa che Caravaggio, polemico con chi lo criticava per il suo stile naturale e per i soggetti tratti troppo indecorosamente dalla vita quotidiana, «per dare autorità alle sue parole, chiamò una zingara che passava a caso per strada e condottala all'albergo la ritrasse in atto di predire l'avvenire».

Nella Buona Ventura dei Musei Capitolini, affidata dal Caravaggio al mercante Valentin e acquistata dal cardinal Del Monte, si intravvede già quello studio sulla luce e sul colore, che caratterizzerà poi lo stile del pittore lombardo. Sebbene la tavolozza sia ancora chiara e l'atmosfera giocosa, sullo sfondo si allunga già una lama d'ombra e l'illuminiazione sapiente fa emergere con estrema chiarezza i volumi solidi e concreti dei personaggi. A conferma dell'autografia del quadro, da qualcuno un tempo posta in dubbio, sono poi giunti i risultati degli esami radiografici che hanno evidenziato la sagoma di una Madonna dipinta dal Cavalier d’Arpino al di sotto della composizione del Caravaggio, il quale deve quindi aver utilizzato una tela di recupero, presa ai tempi in cui lavorava nella bottega del maestro.

Caravaggio dipingerà negli stessi anni anche un'altra versione del quadro, pressoché identica, acquistata da Alessandro Vittrice ed oggi conservata al Louvre. Il soggetto avrà poi un immediato successo, testimoniato dalle numerose versioni realizzate dai pittori della cerchia caravaggesca sia stranieri che italiani, come per esempio La buona ventura di Detroit eseguita verso il 1620 da Bartolomeo Manfredi, o La buona ventura conservata nella National Gallery of Canada e dipinta da Simon Vouet all'incirca negli stessi anni, o i Giocatori di carte con la buona ventura di Nicolas Regnier, databile tra il 1622 e il 1625..

I bari
1594-1595
Olio su tela; cm 94,15 x 131,25
Fort Worth (Texas), Kimbell Art Museum

i bari

Nel 1987 un quadro di Caravaggio descritto dai suoi biografi e ritenuto ormai perduto, compare improvvisamente sul mercato antiquario e viene immediatamente acquistato dal museo texano. Si tratta de I bari, opera assai lodata dalle fonti, la cui autenticità è attestata non solo dall'analisi stilistica, ma da numerose caratteristiche tecniche e, non ultimo, dal rinvenimento sulla tela del timbro del cardinal Del Monte, primo proprietario del quadro.

Questa straordinaria scena di gioco, nella quale Caravaggio teatralizza sapientemente l'antitesi fiducia-inganno contrapponendo al giovane ingenuo la subdola coppia di bari, sarà il prototipo di numerose versioni realizzate dai suoi seguaci sia nordici che italiani, come per esempio La stanza delle guardie dipinta da Bartolomeo Manfredi o il sofisticatissimo Baro con l'asso di quadri di Georges de La Tour. Quello dei bari sarà, infatti, uno dei soggetti caravaggeschi più imitati e di maggior fortuna, copiato fin dai primi del Seicento, come dimostra la notizia di un expertise compiuta da Giulio Mancini nel 1621 su una versione posseduta dal Sannesio e da lui ritenuta originale di Caravaggio, ma che il conoscitore riconosce essere una copia.

Il Bellori cos“ descrive la sottile atmosfera psicologica che il Merisi ha saputo ricreare in questo ritrovato capolavoro: «Finsevi un giovinetto semplice con le carte in mano, ed è una testa ben ritratta dal vivo in abito scuro, e di rincontro a lui si volge in profilo un giovine fraudolente, appoggiato con una mano sulla tavola del giuoco, e con l'altra dietro si cava una carta falsa dalla cinta, mentre il terzo vicino al giovanetto guarda li punti delle carte, e con tre dita della mano li palesa al suo compagno».

Il quadro, affidato dal Caravaggio al mercante Valentin che aveva bottega accanto alla chiesa di San Luigi dei Francesi, venne acquistato dal cardinale Francesco Maria Del Monte, il quale, come informa il Bellori, «per dilettarsi molto della pittura ridusse in buono stato Michelangelo e lo sollevò dandogli luogo honorato in casa con i suoi gentiluomini». I bari, quindi, come anche La buona ventura conservata nei Musei Capitolini, sarebbero stati dipinti da Caravaggio prima di entrare a far parte degli stipendiati del potente cardinale, nello stesso periodo in cui realizza le sue opere più giorgionesche, come il Riposo nella fuga in Egitto. Anche nei Bari, infatti, la tavolozza del pittore lombarda è ricca e variata, brilla di cromie che non si troveranno in futuro e che appartengono ancor alla sua fase giovanile.

Riposo nella fuga in Egitto
1595-1596
Olio su tela; cm 135 x 166,5 Roma, Galleria Doria Pamphilj

riposo

In un dolce paesaggio dai toni autunnali, accanto alle acque calme di un fiume, un angelo dalle lunghe e affusolate ali di rondine, volge le spalle allo spettatore e si appresta a suonare sul suo violino la musica dallo spartito che San Giuseppe gli tiene aperto. Accanto, la Madonna, stanca per il lungo cammino, riposa stringendosi al petto il Bambino immerso nel sonno.

Questo brano di pittura, tra i più celebrati dell’arte di tutti i tempi, raffigura il momento in cui la Sacra Famiglia, inseguita dall’editto sanguinario di Erode, si concede un sosta ristoratrice durante la fuga verso l’Egitto. Il tema è tra i più popolari dell’arte devozionale, ma Caravaggio infonde nella scena un sentimento di quiete e calda intimità del tutto nuovo, lontano, per esempio, dall’aulica classicità che pervade la tela dipinta meno di dieci anni dopo da Annibale Carracci (Paesaggio con la fuga in Egitto). La scelta rivoluzionaria di Caravaggio consiste infatti nel porre al centro della composizione non la Vergine con il Bambino, ma il muto dialogo di gesti e sguardi tra il divino musicante e l’umanissimo Giuseppe. Questi, con la fiasca di vino posata a terra, seduto sul sacco che ha appena tolto dal basto dell’asino, mostra tutto il suo impaccio di fronte all’evento miracoloso, accavallando nervosamente i piedi nudi e scrutando attentamente il bel volto dell’angelo per cogliere il segnale convenuto e voltare le pagine dello spartito.

Pur nella sua apparente semplicità, la composizione nasconde con suprema naturalezza un fitto intreccio di coltissimi rimandi alla storia della pittura, accanto a citazioni letterarie e musicali, che solo una ristretta cerchia di raffinati umanisti poteva comprendere. La figura dell’angelo, per esempio, sembra ripetere quasi letteralmente la posa della personificazione allegorica del Piacere, nell’Ercole al bivio dipinto da Annibale Carracci tra il 1595 e il 1597 per lo studio del cardinale Odoardo Farnese. Una somiglianza tanto lampante da rendere oggi difficile stabilire quale dei due artisti si sia ispirato. Il paesaggio sullo sfondo del quadro di Caravaggio, inoltre, mostra con evidenza la formazione lombardo-veneta dell’artista, che deve aver guardato agli illustri esempi di Lorenzo Lotto (Apparizione della Vergine ai santi Antonio abate e Ludovico di Tolosa) e dei maestri bresciani Savoldo (Il profeta Elia) e Moretto (Elia e l’angelo).

Infine, l’identificazione della musica sullo spartito musicale che San Giuseppe stringe in mano, ha permesso di cogliere appieno il significato simbolico del dipinto. Si tratta, infatti, della trascrizione di un mottetto del compositore franco-fiammingo No‘l Balduin, intitolato Quam puchra est quam decora, il cui testo è tratto dal Cantico dei Cantici. L’esaltazione poetica della Sposa fatta dallo Sposo, è stata sempre interpretata come una allegoria del dialogo amoroso tra Cristo e la sua Chiesa; e inoltre anche numerosi elementi presenti nel quadro, come per esempio la quercia sullo sfondo - dello stesso legno di cui sarà fatta la croce -, alludono alla passione che attende il Bambino addormentato.

Questa pausa serena, pervasa da una dolce malinconia, rimarrà una sublime parentesi nell’opera di Caravaggio e la sua pittura si farà mano a mano più scura e drammatica.

Maddalena penitente
1594-1595
Olio su tela; cm 122,5 x 9,5
Roma, Galleria Doria Pamphilj

penitenza

L’abate Bellori, uno dei biografi del Caravaggio, racconta che l’artista «dipinse una fanciulla a sedere sopra una seggiola con le mani in seno, in atto di asciugarsi i capelli, la ritrasse in una camera, e aggiunse in terra un vasello di unguenti, con monili, e gemme, la finse per Maddalena». La fanciulla dai capelli rossi dipinta in questo quadro è la stessa che ha posato per la Madonna nel Riposo nella fuga in Egitto, ed è probabile che si tratti di quella giovane cortigiana romana di nome Annuccia, ricordata dalle cronache del tempo per la sua chioma fulva.

Il tema della peccatrice pentita ha una lunga tradizione letteraria e iconografica: si vedano, per esempio, l’aguzza Maria Maddalena di Carlo Crivelli, le innumerevoli versioni della Maddalena al sepolcro dipinte da Girolamo Savoldo, come quella di Londra, elegantissima nel suo mantello di seta azzurra, o la sensuale Maddalena penitente che il Tintoretto dipinge qualche anno dopo a Venezia. Tuttavia Caravaggio sembra distaccarsi da questi illustri precedenti soffermandosi sul momento della conversione, reso con toni intimistici e discreti. L’ambientazione della scena in una stanza spoglia, quasi la una cella di un eremita, col pavimento di semplici mattoni e un muro grigio su cui si allunga una lama di luce, rende stridente il contrasto con gli abiti sontuosi e i gioielli della Maddalena. In questo modo Caravaggio suggerisce, senza retorica, la vita di mortificazione e di preghiera che attende ora la Maddalena convertita.

È una donna sfinita dal pianto, infatti, quella raffigurata dal pittore. Seduta su una seggiolina con le mani incrociate in grembo, Maddalena reclina mestamente il capo, gli occhi chiusi come stesse lentamente scivolando in un sonno profondo, con la fluente chioma tizianesca sciolta sulle spalle fin quasi a terra. Ha ancora indosso le ricche vesti in pesante broccato da cortigiana, ma a terra giacciono gli emblemi della vita dissoluta che ha condotto fino a quel momento: la collana d’oro e il braccialetto, gli orecchini e il filo di perle che si è strappata dal collo e che si è evidentemente spezzato in due per la furia del gesto. Accanto, invece, brilla il vaso di vetro soffiato con l’unguento aromatico. L’abbandono delle vanità del mondo, simboleggiate dai gioielli che Maddalena ha gettato in terra, viene in seguito ripreso e accentuato, per esempio, da Fabrizio Boschi - artista fiorentino giunto a Roma tra il 1602 e il 1606 -, che si accosta ai modi caravaggeschi (La Maddalena che si strappa le vanità), attraverso la pittura forte e drammatica di Artemisia Gentileschi.

Alcuni hanno inoltre voluto vedere nel fiotto di luce che irrompe sullo sfondo della stanza un’allusione alla luce salvifica di Cristo che dissipa le tenebre in cui è immerso il peccatore. Interpretazione, questa, che inserisce il Caravaggio all’interno delle tendenze spirituali pauperistiche della Controriforma, propagandate dagli oratoriani di San Filippo Neri e dal cardinale Federico Borromeo.

Ragazzo morso da un ramarro
1595-1596
olio su tela; cm 65,8×52,3
Fondazione Longhi, Firenze

morso

La prima versione, realizzata su tela tra il 1595 ed il 1596 e conservata presso la Fondazione Longhi a Firenze, è senza dubbio opera autografa di Caravaggio.

La seconda, realizzata su tela tra il 1595 e il 1600 (e comunque successiva alla precedente) è conservata presso la National Gallery di Londra. Quest'ultima opera è stata acquisita dal Museo attraverso il contributo della Fondazione J. Paul Getty Jr. nel 1986.

Non è ancora chiaro quando e presso chi il dipinto venne realizzato. Giulio Mancini afferma che l'opera venne realizzata quando il pittore abitava in casa di monsignor Pandolfo Pucci, mentre Giovanni Baglione precisa che fu dipinta quando Merisi lasciò la bottega di Cavalier D'Arpino, nel tentativo di “mettersi in proprio”. L’opera sarebbe dunque riconducibile al periodo precedente l’ingresso di Caravaggio in quel vasto entourage del cardinale Francesco Maria del Monte, e dunque sarebbe databile attorno al 1598, quando è documentata l’iscrizione di Caravaggio al "rolo" del cardinale. Più evidente, invece, l'interesse che in questo periodo il pittore nutre per la rappresentazione dei moti dell'animo - i cosiddetti "affetti"- che gli veniva direttamente dallo studio (probabilmente già iniziato in Lombardia) dell'opera di Leonardo da Vinci, dei suoi schizzi e del suo Trattato di Pittura, in cui si descrivono “vari accidenti e movimenti dell'uomo e proporzioni di membra". In questo senso, avevano larga importanza gli studi di fisiognomica, il cui fine precipuo era quello di studiare i caratteri psicologici e morali di una persona analizzandone l'aspetto fisico e, in particolare, i lineamenti. Tuttavia, a orientare gli artisti nella rappresentazione degli "affetti" sono soprattutto i fogli di caricature e di raffigurazioni del grottesco: un genere praticato non solo da Leonardo, ma anche da Michelangelo e più tardi dai Carracci. Le caricature avevano il compito non solo di alterare in forma comica i connotati della persona, ma anche di mostrare emozioni e sensazioni. In quest'opera, Caravaggio mostra, come in un "fotogramma", la raffigurazione di una reazione all'orrore che un giovane prova di fronte al morso di un ramarro sbucato dai fiori e frutti.

Come si evince anche dal titolo del dipinto, quest’opera raffigura un ragazzo morso da un ramarro, che sbuca dai fiori e dai frutti in cui era nascosto. È probabile che l’opera abbia un significato morale, e cioè che nel grande piacere si nasconde anche un grande dolore. Il riferimento sembra essere proprio al piacere e alle pene d'amore, come la scelta del modello effeminato, con una rosa tra i capelli e la spalla destra scoperta sembrerebbero suggerire. Le ciliegie appaiate sarebbero, infatti, un simbolo sessuale, così come il gelsomino bianco alluderebbe al desiderio, mentre la rosa fra i capelli del giovane effeminato sarebbe un riferimento all'amore. Il dipinto risentirebbe, dunque, del clima culturale ed edonistico che si respirava a Palazzo Madama alla corte del cardinale Francesco Maria del Monte, che amava festini con giovani effeminati, vestiti all'antica, che si esibivano in rappresentazioni teatrali e musicali.[9] Anche il ramarro e la morsicatura sono stati oggetto di molteplici letture allegoriche, talvolta piuttosto ardite e scientificamente poco motivate. Tra queste, quella del romanziere australiano Peter Robb, secondo cui il ramarro serebbe allegoria del pene, e quella di Andrew Graham Dixon, secondo cui il dito della mano sarebbe simbolo del fallo leso, o meglio, della castrazione, procurata dalla bocca sdentata del ramarro, trasformata stavolta in una sorta di vagina dentata, che punisce l'eccesso di libidine.

Tre le fonti d'ispirazione più accreditate vi è anche lo schizzo Asdrubale morso da un granchio o Asdrubale morso da un gambero, eseguito da Sofonisba Anguissola e datato 1554, spedito a Michelangelo Buonarroti dal padre della pittrice in una delle lettere che i due artisti si scambiavano. Tra le tante ipotesi volte a chiarire come Caravaggio conoscesse questo disegno, la più plausibile è quella avanzata da Rossella Vodret Adamo, secondo cui Caravaggio potrebbe aver visto una copia del disegno in questione nella bottega di Cavalier d'Arpino.È ormai fuor di dubbio che, nonostante quanto riferito dalle fonti, Caravaggio tenesse in considerazione notevole la lezione dei grandi maestri del Cinquecento e dell’antichità. Secondo il succitato romanziere Peter Robb, per questo dipinto, Caravaggio si sarebbe ispirato all’Apollo sauroctono, copia romana di una scultura greca in cui Apollo è raffigurato come un giovane efebico, languido, dalle carni molli e acerbe che, secondo Robb, potrebbe avere alcuni collegamenti con il giovane di Caravaggio. Tuttavia, al di là degli aspetti fisici di Apollo, la scultura non presenta alcuna analogia con il dipinto di Caravaggio, né nella posa del personaggio, né nelle espressioni, né nel soggetto, poiché il giovane che, nella tela di Merisi, viene morso da un ramarro, non è intento ad uccidere la bestiola.

Nel dipinto sono particolarmente curati gli effetti luministici: la luce che penetra da una finestra, si riflette nel vaso e attraversa l'acqua e la boccia di cristallo. Con ogni probabilità, Caravaggio era a conoscenza degli studi di Giovanni Paolo Lomazzo, ed in particolare del suo Trattato dell'arte della pittura, nel quale vi è un fondamentale capitolo intitolato "De gli effetti che partorisce lo lume nei corpi acquei". In questo capitolo, Lomazzo esamina le diverse qualità della luce riflessa nei liquidi (come nel caso della brocca nel dipinto in questione). Significativamente, il cardinal Del Monte condivideva con Caravaggio la passione per le lenti, i vetri, gli specchi e, più in generale, per l’ottica, di cui il fratello scienziato Guidubaldo Del Monte era uno studioso.

Nel dipinto, la luce entra in campo come un lampo nel buio ed è una luce ortogonale, che non viene dall'alto, ma da una sorgente al di fuori della scena dipinta; essa colpisce la brocca d'acqua in linea retta e senza produrre deflessione, come del resto è possibile notare osservando gli steli recisi dei fiori che sono, appunto, ritti

Per ciò che riguarda la tecnica pittorica, le indagini diagnostiche sul dipinto presso la Fondazione Longhi hanno evidenziato una stesura preparatoria bruno-verdastra che è lasciata a vista lungo i contorni della spalla sporgente, intorno ai capelli neri e sul fondo in più punti; mentre sul volto si trovano le lunghe e ripetute volute del pennello alla ricerca dell'amalgama giusta per l'incarnato, secondo un sistema già sperimentato, forse all'epoca dell'apprendistato con il Peterzano. Bellissimo è l'andamento verticale delle rughe della fronte che, assieme alla tensione nervosa della mano, alla lacrima che si intravede all'angolo dell'occhio destro, alla sottile lamina umida della lingua, suggeriscono visivamente una reazione psicologica che unisce, allo stesso tempo, l'orrore, il dolore, e la sorpresa

Suonatore di liuto con vaso di fiori e frutti
1595-1596
Olio su tela; cm 94 x 119
San Pietroburgo, Museo dell’Ermitage

suona

Giovanni Baglione, uno dei biografi di Caravaggio, descrive un quadro dipinto dall’artista in cui un giovane suonatore di liuto ha lo spartito musicale posato sul tavolo, accanto a uno splendido vaso di fiori, in cui si scorge il riflesso di una finestra. «E questo», conclude Baglione, «[disse] che fu il più bel pezzo, che facesse mai». Il dipinto, acquistato dal marchese Vincenzo Giustiniani, è una delle opere in cui si ritrovano i temi caratteristici della produzione dell’artista in questo periodo: la giovinezza spensierata, la musica e il canto e, infine, la cura nella resa degli oggetti e delle nature morte, quasi da pittore fiammingo.

Il giovane assorto nel canto, con la camicia aperta sul petto e una fascia di tela bianca annodata tra i capelli, è di una bellezza femminea al punto che un altro biografo di Caravaggio, Giulio Mancini, nel descrivere un’altra versione del quadro, acquistata dal cardinal Del Monte, lo ha scambiato per una fanciulla. Tuttavia, al di là delle interpretazioni in chiave omosessuale dell’utilizzo di modelli dalla bellezza effeminata nei quadri caravaggeschi di questo primo periodo, va ricordato che l’esaltazione della bellezza efebica e dell’armonia del canto e della musica fa parte della cultura raffinata dei committenti dell’artista. Il banchiere Vincenzo Giustiniani, collezionista d’arte di vasta e variata cultura, nel suo Discorso sopra la Musica, pubblicato nel 1628, descrive infatti l’ambiente musicale romano dell’epoca citando i nomi dei cantanti e dei musicisti più amati dal pubblico. Il cardinal Del Monte, invece, organizza spesso nel suo palazzo intrattenimenti musicali a cui egli stesso partecipa - «sappiate che io suono di chitarriglia et canto alla spagnuola», scrive a un amico -, ed è in contatto con i più importanti musicisti della Roma di Clemente VIII, in particolare con Emilio de’ Cavalieri. Inoltre, ospita nel suo palazzo il castrato spagnolo Pedro Montoya, cantore nel coro della cappella Sistina, che forse può esser stato utilizzato da Caravaggio come modello dei due dipinti.

La stessa esaltazione della bellezza androgina si ritrova in un altro celebre quadro acquistato dal cardinal Del Monte, il Concerto di giovani, conservato nel Metropolitan Museum di New York, dove tre giovani abbigliati all’antica sono intenti in un concertino, mentre sullo sfondo un cupido con ali e faretra tiene in mano dell’uva. Il quadro, registrato negli inventari del cardinale col generico titolo di Una Musica, sarebbe quindi un’allegoria della musica e dell’amore, tema ricorrente nella pittura del Cinquecentoe poi ripreso da numerosi seguaci di Caravaggio, quale Orazio Gentileschi (La suonatrice di liuto).

Anche in questo dipinto, infine, va notato il realismo con cui Caravaggio raffigura gli strumenti musicali. Uno splendido violino e un gigantesco chitarrone troneggiano, per esempio, nell’Amor vittorioso, in organizzato disordine ai piedi del divino fanciullo, tra squadre e armature. Inoltre, l’artista non manca mai di inserire delle partiture musicali con le note chiaramente leggibili, al punto che spesso è stato possibile individuarne gli autori: da No‘l Balduin a Francesco Layolle, a Giachetto Berchem, tutti autori allora in voga.

Bacco
1595-1596
Olio su tela; cm 95 x 85
Firenze, Galleria degli Uffizi

bacci

Il florido e pensieroso Bacco degli Uffizi segue di qualche anno il cosiddetto Bacchino malato della galleria Borghese, e se ne distingue per l’atmosfera pacata e i colori caldi, ben lontani dalle livide tonalità acide del Bacchino. È un artista diverso quello che abbiamo di fronte, pienamente consapevole del suo valore e padrone dei suoi mezzi espressivi. Le difficoltà degli inizi sono infatti superate e Caravaggio, accolto dal potente cardinal Del Monte tra i suoi stipendiati, ha ormai un suo pubblico di estimatori e collezionisti, per i quali realizza quadri da cavalletto di soggetto sacro e profano.

Disteso su un triclinio, abbigliato all’antica, Bacco sfoggia una sontuosa corona di grappoli d’uva, tra i quali spiccano alcune foglie ormai secche. Questa insistenza sulla stagione autunnale, giustificata dalla presenza del dio del vino e ribadita dalla frutta disposta nella fruttiera di ceramica sulla tavola, ha suggerito ad alcuni l’ipotesi che il quadro vada interpretato come una rappresentazione simbolica della vita che volge al termine e, in chiave religiosa, come una allegoria della Passione di Cristo. Bacco, infatti, dio munifico che dona conforto ai mortali col suo dolce liquore, fin dai primi secoli dell’era cristiana viene inteso come una sorta di prefigurazione del Salvatore. Caravaggio lo raffigura nell’atto di offrire allo spettatore un largo calice colmo di vino, che potrebbe alludere al sangue di Cristo e al mistero eucaristico. Inoltre, alcuni tra i frutti disposti nella fruttiera potrebbero alludere a significati simbolici, codificati nella tradizione secolare degli erbari e dei commentari biblici. La melagrana matura, infatti, che al suo interno racchiude una miriade di semi, simboleggia l’unità dei cristiani nella Chiesa fondata da Cristo, mentre i pampini e i grappoli d’uva alludono al vino eucaristico, promessa di resurrezione e di vita eterna.

Secondo questa interpretazione, il dipinto di Caravaggio rappresenterebbe quindi un’esaltazione della cultura paganeggiante riportata in auge dai primi umanisti, né tantomeno un inno al vino terreno, ma, forse, un’allegoria dell’ebbrezza mistica in cui si fondono, miracolosamente, cultura classica e teologia cattolica.

Ben diverso è il caso di Bartolomeo Manfredi, tra i primi seguaci di Caravaggio, che nel Bacco e bevitore, dipinto nel primo decennio del Seicento, si limita a costruire una scena di genere ispirata probabilmente alle rappresentazioni carnevalesche. Qui un Bacco dai tratti marcati e popolareschi, spreme il succo dell’uva direttamente nel boccale dell’uomo, e nulla indica una possibile interpretazione allegorica della raffigurazione. Lo stesso Velázquez, pur ispirandosi in modo evidente al quadro di Caravaggio, trasforma la composta profferta del calice salvifico in una grottesca incoronazione di seguaci di Bacco, in cui la parte del dio è recitata da un impacciato giovane seduto su una botte (Trionfo di Bacco).

Canestro di frutta
1596 circa
Olio su tela; cm 31 x 47
Milano, Pinacoteca Ambrosiana

canestra

Il Canestro di frutta è l’unico quadro di Caravaggio giunto fino a noi ad avere una natura morta come unica “protagonista” della composizione. Anche per un autore geniale e ribelle come lui, la scelta appare tanto straordinaria da aver fatto pensare ad alcuni che il cesto, viste anche le ridotte dimensioni della tela, facesse parte di una composizione più tradizionale, simile, per esempio, al Ragazzo con canestro di frutta, e che sia stato ritagliato in seguito per farne un quadro a sé stante; pratica non inconsueta, ma che in questo caso è stata contraddetta dai risultati del restauro. Gli esami radiografici escludono infatti che il Canestro di frutta facesse parte di una composizione più complessa o addirittura di una tela di soggetto sacro, sul genere della Cena in Emmaus conservata a Londra, dove una cesta altrettanto realistica campeggia al centro della tavola.

Altri, invece, ritenendo improbabile che l’artista abbia realizzato un unico esemplare del genere, hanno tentato di inserire nel catalogo delle opere di Caravaggio un gran numero di nature morte con fiori e vegetali, fino a quel momento attribuite genericamente a ignoti seguaci. È il caso della Natura morta del cosiddetto Maestro di Hartford, o la splendida Natura morta di frutta con una caraffa conservata nella National Gallery di Washington e attribuita a uno sconosciuto artista denominato il Pensionante del Saraceni, forse identificabile con quel pittore di nazionalità francese che le fonti ricordano come uno dei più stretti collaboratori del caravaggesco veneziano Carlo Saraceni.

Le radiografie hanno inoltre rivelato che l’opera è stata eseguita su una tela di recupero, e infatti al di sotto della composizione di Caravaggio si distingue un abbozzo di decorazione a grottesca, forse attribuibile all’amico Prospero Orsi, noto con il soprannome di Prosperino delle Grottesche per l’abilità con cui realizzava su tela e ad affresco questo tipo di pittura decorativa.

Il quadro, che faceva parte della collezione del cardinale Federico Borromeo donata alla città di Milano, può essere considerato uno dei prototipo di un genere in cui eccellono i seguaci della pittura naturalista di Caravaggio. Dalla pittrice lombarda Fede Galizia (Fruttiera di ceramica con uva, prugne e pere), le cui opere vengono spesso confuse con quelle di Panfilo Nuvolone (Mele, cesto con castagne e coniglio), allo spagnolo Juan van der Hamen y León (Bodegón di frutta e ortaggi), fino agli straordinari “trionfi di frutta” in cui eccellono i maestri della scuola napoletana.

Giuditta che decapita Oloferne
1598-1599
Olio su tela; cm 145 x 195
Roma, Galleria nazionale di arte antica, Palazzo Barberini

giuditta

L'attribuzione al Caravaggio della Giuditta che decapita Oloferne di Palazzo Barberini risale al 1951, quando venne esposta nella prima grande mostra dedicata al pittore. Oggi, salvo alcune perplessità, gli studiosi sono propensi a riconoscervi il quadro eseguito, secondo il biografo Baglione, per il banchiere Ottavio Costa. Questi, appassionato collezionista delle tele di Caravaggio, possedeva anche il San Francesco in estasi, Marta che rimprovera Maddalena per la sua vanità, il San Giovanni Battista ora a Kansas City e la Cena in Emmaus ora a Brera. Il banchiere doveva amare a tal punto questa tela da imporre ai familiari, nel testamento redatto il 7 febbraio 1632, il divieto di vendere i quadri di Caravaggio e «particolarmente la Giuditta».

L'episodio, tratto dall'omonimo libro della Bibbia, ha sempre stimolato la fantasia degli artisti, affascinati dal misto di violenza e sottile erotismo della scena. A volte, come nel caso di Botticelli (Il ritorno di Giuditta a Betulia), viene raffigurato il momento successivo alla decapitazione, quando la giovane ripone nel sacco sorretto dalla fantesca la testa mozza di Oloferne; altre volte (Giorgione, Giuditta), la donna assume la posa dell'eroina che trionfa sul male, poggiando il piede delicato sul capo del malvagio, quasi fosse l'arcangelo Michele che schiaccia il demonio (Moretto, L'incoronazione della Vergine).

Caravaggio ha invece scelto di rappresentare il momento cruciale della scena, indulgendo in particolari macabri come il fiotto di sangue che sprizza dalla testa afferrata per i capelli da Giuditta o il roteare degli occhi della vittima sorpresa nel sonno. Accanto alla giovane, la vecchia serva osserva l'operazione stringendo la mascella rugosa e la bocca, dimostrando tutto il suo odio per il generale assiro. Questi aveva posto l'assedio alla città di Betulia e, invaghito di Giuditta, aveva invitato la donna nel suo accampamento, decretando, inconsapevolmente, la propria fine.

Con quel roteare degli occhi alla ricerca del volto della fanciulla, in quella espressione sorpresa che si dipinge sul volto di Oloferne, Caravaggio ha quindi suggerito il rapporto erotico esistente tra vittima e carnefice. E sembra, al contrario delle numerose e impressionanti “macellerie” allestite da Artemisia Gentileschi - si pensi alle versioni del medesimo soggetto conservate a Napoli o a Firenze -, che un moto di compassione umana nei confronti del povero generale, sgozzato con tanta impassibile ferocia, abbia guidato il pennello di Caravaggio.

Da notare, infine, che a posare per la figura corrucciata di Giuditta è stata senza dubbio la giovane cortigiana Fillide Melandroni, la stessa modella che il pittore aveva utilizzata per la Santa Caterina d'Alessandria, e che aveva ritratta in un quadro oggi distrutto (Ritratto di Fillide).

Il soggetto conoscerà una vastissima fortuna tra gli stretti seguaci del maestro, quali Orazio Gentileschi (Giuditta con la fantesca), padre di Artemisia, ma anche tra pittori raffinati e poco noti, come il napoletano Bernardo Cavallino, che trasformerà il macabro particolare della testa mozzata in una sorta di tenebrosa suppellettile esibita con garbo e disinvoltura da una gioviale ed elegantissima Giuditta.

Vocazione di san Matteo
1599-1600
Olio su tela; cm 322 x 340
Roma, San Luigi dei Francesi, cappella Contarelli

vocazione

Gran datario di papa Gregorio XIII, il cardinale Mathieu Cointrel, più noto con il nome italianizzato di Matteo Contarelli, nel 1565 acquista per sé e la sua famiglia una cappella nella chiesa romana di San Luigi, punto di riferimento della comunità francese cittadina. La decorazione della cappella viene dapprima commissionata al pittore bresciano Girolamo Muziano, ma non avendo questi in quasi un ventennio nemmeno iniziato i lavori, dopo la morte di Contarelli, avvenuta nel 1585, viene incaricato lo scultore fiammingo Jacob Cobaert di realizzare un gruppo marmoreo con San Matteo e l'angelo nel 1587. Ma la statua dell'evangelista, che Cobaert consegnerà nel 1602 priva dell'angelo, rimarrà per poco tempo sull'altare. Tra ritardi e polemiche si giunge cos“ al maggio del 1591 quando il Cavalier d’Arpino, artista allora in voga e nella cui bottega Caravaggio aveva svolto un periodo di apprendistato, si impegna a completare nell'arco di un anno e mezzo la decorazione della cappella, illustrando sulle pareti e sulla volta le scene della vita del santo eponimo del primo committente. In realtà lo svogliato Cavalier d'Arpino porta a termine solo l'affresco della volta, e gli esecutori testamentari, premuti anche dal clero della chiesa, impaziente di veder completati i lavori in tempo per le celebrazioni dell'anno santo del 1600, nel luglio del 1599 passano l'incarico al giovane Merisi.

È la prima commissione importante di Caravaggio, la prima occasione che gli si presenta per mostrare il suo valore in una serie di opere destinate a un luogo pubblico. E non è improbabile che il cardinale Del Monte, esponente di spicco della fazione filofrancese della curia, abbia giocato un ruolo decisivo per l'assegnazione dell'incarico al suo giovane protetto. Il biografo Giovanni Baglione, acerrimo nemico di Caravaggio, scriverà infatti anni dopo che Michelangelo «per opera del suo cardinale hebbe in S. Luigi de' Francesi la cappella de' Contarelli».

Il programma iconografico era già stato fissato fin dal 1565 dallo stesso Contarelli: a sinistra dell'altare doveva comparire la chiamata, o Vocazione di San Matteo, mentre a destra era previsto il Martirio del santo, giustiziato barbaramente dai soldati del re etiope Hirtacus. Si è ormai propensi a ritenere che Michelangelo abbia dapprima iniziato a lavorare sul Martirio per poi passare, insoddisfatto, alla Vocazione. Le radiografie hanno infatti mostrato, al di sotto delle versioni definitive, architetture e figure poi eliminate da Caravaggio, a testimonianza della tormentata gestazione delle opere.

È evidente che nell'illustrare l’episodio narrato negli Atti degli Apostoli, l’artista deve essersi in qualche modo ricordato di uno dei suoi primi quadri, quei Bari sui cui volti si legge la stessa bramosia per il denaro che domina la parte sinistra della Vocazione. La scena è infatti ambientata attorno al tavolo del gabelliere Levi d'Alfeo, intento a contare le monete che un giovane gli deve appena aver sciorinato davanti sotto lo sguardo miope e arcigno di un vecchio impellicciato: è in questo momento che viene notato da Cristo mentre passa per la via accompagnato dai discepoli. La chiamata a seguirlo porterà Levi, che muta il suo nome in Matteo, a testimoniare la parola del Salvatore in terre lontane, fino in Etiopia, doveva troverà la morte.

L'ingresso di Cristo sulla scena è accompagnato dal fiotto di luce che fende l'oscurità, evidente allusione alla "illuminazione" del peccatore raggiunto dalla grazia, e sottolinea il dialogo dei gesti dei protagonisti, impegnati in un dialogo muto di straordinaria forza espressiva. Alla mano tesa da Gesù sembra rispondere Matteo che, incerto, indica se stesso quasi a chiedere conferma; conferma che giunge da Pietro, rappresentante in terra del volere di Dio, che ripete lo stesso gesto del Maestro. È interessante notare che la figura di Pietro, come hanno mostrato gli esami radiografici, non compariva nella prima stesura ed è stata aggiunta in un secondo momento; fatto questo che ha suggerito ad alcuni la volontà - forse dei committenti - di ribadire l'importanza del primo dei pontefici, unico interprete del volere di Dio, in un periodo ancora sconvolto dalle guerre di religione.

Nei personaggi seduti al tavolo, nella cura con cui sono dipinte le stoffe dei loro abiti, si avverte ancora la formazione lombardo veneta del pittore, che in questi particolari - e sarà una delle ultime volte - indulge in una tavolozza dai colori tenui e dorati, simile a quella dispiegata nella Buona ventura. Non sorprende allora - come riporta il Baglione - che il principe dell'Accademia di San Luca, Federico Zuccari, in visita alla chiesa dove accorreva la gente per vedere le tele di Caravaggio, abbia esclamato malignamemente: «Che rumore è questo? e guardando il tutto diligentemente, soggiunse, Io non ci vedo altro, che il pensiero di Giorgione [...] e sogghignando, e maravigliandosi di tanto rumore, voltò le spalle, et andossene con Dio».

Martirio di san Matteo
1599-1600
Olio su tela; cm 323 x 343
Roma, San Luigi dei Francesi, cappella Contarelli

martirio

Grazie ai buoni uffici del cardinal Del Monte, nel 1599 Caravaggio viene incaricato di portare a termine la decorazione della cappella Contarelli nella chiesa di San Luigi dei Francesi, la sua prima, importante commissione pubblica. Al pittore vengono commissionate due tele con episodi della vita di san Matteo da collocare sulle pareti laterali della cappella, acquistata oltre trent'anni anni prima dal cardinale Mathieu Cointrel, gran datario di papa Gregorio XIII e più noto con il nome italianizzato di Matteo Contarelli. Questi, morto nel 1585, aveva lasciato precise disposizioni riguardo il programma iconografico da seguire nella decorazione, disposizioni rispettate quasi alla lettera da Caravaggio.

Gli esami radiografici hanno mostrato che l'artista non ha dipinto di getto le scene sulla tela, anzi. Soprattutto nel caso del Martirio di san Matteo, Caravaggio ha proceduto per tentativi successivi che testimoniano la tormentata vicenda creativa del suo primo capolavoro riconosciuto. In un primo tempo la scena, era stata ambientata tra architetture all'antica, con la poderosa figura di un soldato visto di spalle posto al centro della composizione, fulcro e cerniera dell'azione come l'angelo nel Riposo nella fuga in Egitto. Evidentemente insoddisfatto del risultato, Michelangelo deve esser passato alla Vocazione di San Matteo, per poi tornare a riprendere la scena del martirio modificandola totalmente.

Il santo è raffigurato al centro della composizione, ai piedi di un altare, gettato a terra dalla furia del suo carnefice, abbigliato all'antica. È il soldato mandato dal re etiope Hirtacus, indispettito per il rifiuto dell'apostolo di obbedire all'ordine di cessare la sua opera di conversione. Attorno ai due si è già fatto il vuoto, un chierichetto fugge atterrito urlando, mentre gli altri osservano sorpresi o contemplano malinconicamente il sacrificio che si sta per compiere. Qui l'artista dimostra la sua grande attenzione per la tradizione - il nudo statuario del carnefice - e paga un tributo al genio dell'altro grande Michelangelo, il Buonarroti, i cui celebrati Ignudi sulla volta della cappella Sistina sono evidentemente serviti da modello per i giovani seduti in basso a sinistra e a destra, sul bordi della probatica piscina.

Ma l'invenzione più straordinaria di Caravaggio, quella che si ripeterà amplificata nelle Sette opere di misericordia, è quel precipitare verso il basso dell'angelo, in bilico sul'orlo di una nuvola, intento a infilare nella mano aperta di Matteo la palma del martirio, premio agognato di ogni imitatore di Cristo. È un brano di pittura già compiutamente "barocco" e teatrale, che avrà una vasta fortuna: tra gli stretti seguaci di Caravaggio un ignoto pittore, forse Bartolomeo Manfredi, rimarrà affascinato soprattutto dalla figura del soldato, su cui modellerà il Caino che uccide Abele.

Da gran regista, infine, Caravaggio sperimenta qui per la prima volta una ambivalenza dei gesti e delle espressioni, che cattura sulla tela il rovello interiore dei suoi personaggi. Ogni gesto di ribellione o di umana sofferenza si trasforma, infatti, nella cristiana accettazione delle prove a cui il Signore sottopone i fedeli. Lo stesso gesto di Matteo che alza un braccio, quasi a volersi difendere dalla furia del suo carnefice, diventa quindi un mano tesa ad afferrare la palma gloriosa del suo martirio.

Sullo sfondo della composizione, tra la folla che fugge terrorizzata, un volto è illuminato da un fascio di luce: l’uomo con baffi e barba, che volge con espressione malinconica lo sguardo verso la scena in primo piano, assomiglia straordinariamente ai ritratti di Caravaggio tramandati dai contemporanei, per esempio, quello di Ottavio Leoni.

Crocifissione di san Pietro
1600-1601
Olio su tela; cm 230 x 165
Roma, Santa Maria del Popolo, cappella Cerasi

crocifissionecerasi


Quando, nel settembre del 1600, Caravaggio ottiene la sua seconda commissione pubblica è ormai un pittore affermato. Artisti, prelati, nobili e popolo minuto, tutti sono impressionati dalle tele del giovane pittore che dall'inizio dell'anno è possibile vedere nella chiesa di San Luigi dei Francesi, e il suo nome viene ormai posto sullo stesso piano dell'altro nuovo astro della scena artistica romana: Annibale Carracci. Ecco quindi che Tiberio Cerasi, tesoriere di Clemente VIII e della Camera Apostolica, decide di decorare la cappella che ha acquistato da appena un mese in Santa Maria del Popolo con i quadri di mano dei due artisti. A Caravaggio, definito nel contratto «egregius in Urbe pictor» (il più valente tra i pittori di Roma), vengono affidati i due dipinti laterali con la Crocifissione di san Pietro e la Conversione di san Paolo, ad Annibale invece la pala d'altare con l'Assunzione della Vergine.

Morto Cerasi nel maggio del 1601, una prima versione dei quadri consegnati da Caravaggio viene rifiutata dai rettori dell'Ospedale della Consolazione, nominati eredi dal monsignore. Non sappiamo quale sia stato il motivo di tale rifiuto, è comunque certo che in discussione non fosse la qualità pittorica delle opere quanto, forse, il modo in cui il soggetto era stato raffigurato. Infatti la commissione viene confermata allo stesso Caravaggio, il quale in novembre consegna una seconda versione, e le tele, assai lodate, confermano l'opinione generale riguardo l'eccellenza raggiunta dal pittore. Delle prime versioni è rimasta soltanto la Conversione di san Paolo nella collezione Odescalchi-Balbi, la Crocifissione di san Pietro è andata invece perduta.

Contrariamente alle prime versioni, realizzate su tavole di cipresso, le seconde sono entrambe dipinte su tela, con una tavolozza di colori in cui prevalgono i toni bruni e dorati. Gli episodi commissionati a Caravaggio da Cerasi sono in effetti una sorta di variazione sui temi della chiamata di Cristo e del martirio salvifico, temi già affrontati da Caravaggio nella cappella Contarelli; ma in questo caso i protagonisti delle scene non hanno alcuna relazione onomastica con il committente.

Pietro e Paolo, i due pilastri su cui si fonda l'edificio della Chiesa, si ritrovano spesso abbinati fin dai primi tempi dell'era cristiana, e alla crocifissione dell'uno fa spesso da controparte la conversione dell'altro. Il messaggio che Cerasi voleva evidentemente illustrare sulle pareti della cappella è chiaro: la conversione e la testimonianza di fede che non arretra davanti al martirio sono esemplificati nella vita dei due santi e proposti alla meditazione dei fedeli.

Il più illustre precedente delle tele caravaggesche, l'inevitabile punto di riferimento e di confronto per ogni artista del Cinquecento, sono gli affreschi di identico soggetto di Michelangelo nella cappella Paolina in Vaticano. Caravaggio dimostra però una notevole indipendenza nei confronti del maestro, eliminando ogni particolare descrittivo o paesaggistico, riducendo i personaggi e concentrando l'attenzione sull'evento che si compie davanti agli occhi dello spettatore, in uno spazio immerso nel buio più profondo.

Pietro è qui un uomo anziano ma ancora prestante, riverso sulla croce che i sui aguzzini stanno alzando a forza di braccia e corde. L'apostolo è colto nel momento, umanissimo, in cui per sfuggire al dolore atroce sembra quasi voler strappare una mano dal chiodo che gli è stato infisso nelle carni. Ma, come nel caso del Martirio di san Matteo, questo moto di ribellione si trasforma in momento di riflessione sul sacrificio di Cristo. Pietro non guarda, infatti, verso lo spettatore, come nell'affresco di Michelangelo, ma fissa il suo sguardo meditabondo sullo strumento di tortura. Attorno a lui i suoi carnefici non sembrano quasi esseri umani, bestie senza volto e senza coscienza che svolgono il loro macabro compito senza nemmeno comprendere quel che fanno. Appartengono anch'essi al popolo ignorante e povero, ma contrariamente alla coppia di villici raffigurati da Caravaggio nella Madonna dei pellegrini, non mostrano alcun segno di conversione o di fede. Pur interessato alle correnti pauperistiche della Controriforma, l'artista sembra volerci dire che non basta appartenere alle classi più disagiate per entrare nel regno dei cieli se manca l'illuminazione della grazia.

Conversione di san Paolo
1600-1601
Olio su tela; cm 230 x 165
Roma, Santa Maria del Popolo, cappella Cerasi

sanpaulo

Nell'autunno del 1600, monsignor Tiberio Cerasi, tesoriere generale di Clemente VIII, commissiona ai due pittori più celebrati nella Roma di quei tempi la decorazione della cappella che ha appena acquistato nella chiesa di Santa Maria del Popolo, chiesa tra le più esclusive e fastose dell'Urbe, vero e proprio sacrario della potente famiglia della Rovere. A Caravaggio, definito nel contratto «egregius in Urbe pictor» (il più valente tra i pittori di Roma), viene affidata l'esecuzione della Conversione di san Paolo e della Crocifissione di san Pietro, mentre ad Annibale Carracci viene richiesta la pala d'altare con l'Assunzione della Vergine.

La prima versione dei due dipinti di Caravaggio viene rifiutata dai rettori dell'Ospedale della Consolazione, nominati eredi da Cerasi, il quale era nel frattempo morto nel maggio del 1601. È probabile che alle origini del rifiuto ci fosse il disagio dei timorati rettori nei confronti della libertà espressiva, della violenza e concitazione presenti nelle immagini proposte da Caravaggio. Tanta novità, da parte di un pittore già conosciuto per il suo carattere intemperante, deve aver suggerito quindi la mossa prudente di chiedere una seconda versione all'artista, sul cui valore non viene comunque avanzato alcun dubbio. Caravaggio accetta e in poco tempo, nel novembre dello stesso anno, consegna una seconda versione, immediatamente accettata dai rettori e assai lodata dai contemporanei.

Delle prime versioni dei quadri, eseguiti entrambi su tavole di cipresso - fatto insolito per Caravaggio ma esplicitamente previsto nel contratto - è rimasta solo la Conversione di san Paolo ora nella collezione Odescalchi-Balbi che, anche se non da tutti ritenuta autografa, per lo stile affine al Sacrificio di Isacco e per il fatto di esser stata dipinta per l'appunto su una tavola di cipresso, è ormai accettata dalla maggioranza degli studiosi.

Il confronto tra la prima e la seconda Conversione di san Paolo mostra con tutta evidenza il totale stravolgimento della prima idea operato dall'artista al momento di affrontare nuovamente il tema, stravolgimento simile a quanto era già avvenuto in occasione del Martirio di san Matteo e che le radiografie hanno rivelato. Nella versione Odescalchi-Balbi - che mostra una vaga somiglianza con la Conversione di san Paolo di Annibale Carracci -, Cristo sembra quasi precipitare dall'alto, portato a braccia da un angelo; e questa improvvisa apparizione crea scompiglio, fa imbizzarrire il cavallo, spaventa il palafreniere che imbraccia la lancia, annichilisce Paolo, il quale, scaraventato a terra, si copre gli occhi ormai ciechi e apre la bocca in un urlo di terrore.

Nella seconda versione, invece, è scomparsa ogni concitazione e la scena è immersa in un silenzio, profondo quanto l'oscurità che avvolge i personaggi. Al posto di Cristo è una luce calda e dorata a piovere dall'alto, una luce di grazia che abbaglia e acceca il feroce persecutore dei cristiani, steso a terra con un'espressione già serena e attenta sul volto, quasi stesse ascoltando le tonanti parole con cui Dio gli chiede il motivo del suo accanimento. Il gesto di Paolo, quelle braccia aperte e tese verso la fonte invisibile di luce, ricorda la stessa ambivalenza del gesto di Matteo nel Martirio in San Luigi dei Francesi. Anche qui le mani alzate, come a difendersi dall'evento straordinario, sembrano invece allargarsi per accogliere la chiamata del Signore.

Infine, per sottolineare comunque la sua insofferenza nei confronti delle regole con le quali teorici e porporati, come il cardinale Paleotti, cercavano in quegli anni di imbrigliare la fantasia degli artisti per evitare ogni possibile rischio di eresia, Caravaggio ha posto al centro della composizione il corpo pesante del cavallo pezzato, che mostra le terga allo spettatore.

San Matteo e l'angelo
1602
Olio su tela; cm 295 x 195
Roma, San Luigi dei Francesi, cappella Contarelli

smatteoangelo

Nel gennaio del 1602 l'altare della cappella Contarelli in San Luigi dei Francesi è ancora disadorno, anche se che per qualche mese vi viene provvisoriamente sistemata la statua del solo San Matteo scolpita dal fiammingo Jacob Cobaert, al quale era stato commissionato fin dal 1587 un gruppo marmoreo con l'evangelista affiancato da un angelo. Nel frattempo però gli esecutori testamentari di Contarelli avevano già provveduto a commissionare a Caravaggio una pala d'altare, per ottemperare alle precise disposizioni lasciate da Matteo Contarelli, che voleva il suo santo eponimo raffigurato su una tela dipinta.

Per la stessa cappella Caravaggio aveva già realizzato due grandi tele con la Vocazione di san Matteo e il suo Martirio, opere che avevano immediatamente decretato il suo successo trasformandolo da un giovane e quasi sconosciuto artista di quadri da cavalletto in un artista conteso da banchieri e alti prelati. Michelangelo dipinge quindi una prima versione del San Matteo e l'angelo, opera che purtroppo è andata distrutta durante i bombardamenti dell'ultima guerra. Come narra Giovanni Baglione, biografo di Caravaggio, la pala desta immediato scandalo e viene rifiutata dal clero della chiesa, offeso dal realismo con cui il pittore aveva rappresentato l'evangelista. Il Bellori, che postilla le Vite di Baglione, informa che il quadro «fu tolto via da i Preti, con dire che quella figura non haveva decoro, né aspetto di Santo, stando a sedere con le gambe incavalcate, e co' i piedi rozzamente esposti al popolo». In realtà non deve essere stato solo l'atteggiamento poco dignitoso del santo raffigurato da Caravaggio a irritare i religiosi, quanto l'aria ottusa con cui scruta impacciato il gran librone posato sulle ginocchia e il gesto dell'angelo, costretto a prendergli la mano e guidarlo nella scrittura. A suscitare scandalo è la raffigurazione di un evangelista, un interprete della parola del Signore ridotto al rango di un povero vecchio che prende ripetizioni di calligrafia da un giovane boccoluto. La questione poteva inoltre dar luogo a pericolose accuse di eresia. Il maggior motivo di contrasto con i teologi luterani risiedeva infatti nella possibilità dei fedeli di leggere e interpretare i testi sacri senza la mediazione del clero: rappresentare quindi uno degli evangelisti come uno zotico ignorante poteva apparire come uno sminuire il ruolo dei predicatori e, di riflesso, delle gerarchie ecclesiastiche. La tradizione iconografica di Matteo visitato dall'angelo è infatti ben diversa, e ha offerto ad artisti come Girolamo Savoldo, per esempio, l'occasione per sfoggiare un celebrato virtuosismo nelle scene notturne (San Matteo e l'angelo, New York), evitando comunque di incappare in qualsiasi polemica.

Rifiutata la prima versione, a Caravaggio ne viene chiesta un'altra che viene consegnata nel settembre del 1602. Il breve lasso di tempo in cui Caravaggio realizza la seconda pala d'altare, e la sua innegabile maggiore vicinanza stilistica alle tele con la Vocazione e il Martirio di san Matteo hanno spinto alcuni storici a una ipotesi del tutto differente. La prima versione potrebbe essere stata presentata come saggio di prova dal pittore agli esecutori testamentari di Contarelli per convincerli ad assegnargli la commissione delle tele laterali. In seguito, anche a causa dell'insofferenza del clero, Caravaggio l'avrebbe rimpiazzata con quella definitiva, più meditata e “classica”.

Al di là delle discussioni critiche, è evidente anche al primo sguardo la profonda differenza tra le due versioni. Nella seconda l'angelo non si appoggia più familiarmente all'evangelista, né gli guida la mano nella scrittura; sembra invece scendere dondolandosi dall'alto, intento a enumerare sulla punta delle dita le generazioni di antenati di Cristo, dettando quindi l'inizio del libro all'apostolo pronto con la penna in mano.

È quindi una raffigurazione più in linea con i canoni classicisti e monumentali stabiliti dalla scuola di Raffaello, ma Caravaggio ha forse affidato a un particolare apparentemente insignificante la sua critica irridente nei confronti delle gerarchie ecclesiastiche. L’imponente Matteo poggia infatti il ginocchio su uno sgabello che, con un mirabile effetto di trompe l’œil, vacilla oltre la piattaforma e sembra in procinto di franare.

Morte della Madonna
1605-1606
Olio su tela; cm 369 x 245
Parigi, Musée du Louvre

mortemaria

Secondo quanto narra Bellori, Caravaggio, spinto dal suo crescente interesse per la raffigurazione degli aspetti più realistici della natura, «cominciò l’imitazione delle cose vili, ricercandosi le sozzure, e le deformità, come sogliono fare alcuni ansiosamente [...] e cos“ nell’imitare li corpi si fermano con tutto lo studio sopra le rughe, e i difetti della pelle e dintorni, formando le dita nodose, le membra alterate da morbi. Per li quali modi il Caravaggio incontrò dispiaceri, essendogli tolti li quadri da gli altari, come in San Luigi habbiamo raccontato. La medesima sorte», conclude il biografo, «hebbe il transito della Madonna nella Chiesa della Scala, rimosso per havervi troppo imitato una donna morta gonfia».

Commissionata nel 1601, Caravaggio esegue tra il 1605 e il 1606 la pala d’altare con la Morte della Madonna, destinata alla cappella Cherubini nella chiesa di Santa Maria della Scala; poco prima quindi di fuggire da Roma inseguito dall’accusa di omicidio. Lo stesso drappo vermiglio che comparirà poi in uno dei primi dipinti che Caravaggio realizza a Napoli, la Madonna del Rosario, incombe sull’intera composizione, quasi fosse una tela alzata su un palcoscenico dove si recita l’epilogo di un dramma verista. Qui, gli apostoli ormai anziani si stringono attorno al tavolaccio dove la donna livida è distesa, col ventre gonfio e i piedi scoperti, simile al cadavere di un’annegata, vegliata da una Maddalena affranta e disperata.

Già Mancini avanzava l’ipotesi che Caravaggio, invece di raffigurare una tradizionale Dormitio Virginis, «in persona della Madonna havea ritratta una cortigiana da lui amata». La donna ritratta dall’artista potrebbe essere quindi una delle prostitute a cui si accompagnava, forse quella stessa Anna Bianchini che aveva posato per il Riposo nella fuga in Egitto e per la Maddalena penitente, morta di gravidanza nel 1604. Secondo altri studiosi, invece, Caravaggio si sarebbe ispirato alla edificante vicenda di Caterina Vannini, ex prostituta ammirata dal cardinale Borromeo, morta nel 1606 per idropisia in odore di santità.

Tra le più lodate oggi dell’intera sua produzione, la Morte della Madonna provoca un tale scompiglio tra il clero della chiesa, gli artisti dell’Accademia e i bempensanti, da rimanere interdetta alla visione di chiunque, fino al momento in cui viene acquistata per 300 scudi dal duca di Mantova, consigliato all’acquisto lungimirante dal parere del suo pittore di corte: Pieter Paul Rubens. Nell’aprile del 1607 prima che il quadro venga spedito alla corte di Vincenzo Gonzaga viene esposto al pubblico a grande richiesta con un incredibile successo. «Certo m’è stato di soddisfattione il lasciarla goder a satietà,» scriveva l’emissario del marchese al suo signore, «perché è stato commendata di singolar arte».

Decollazione del Battista
1608
Olio su tela; cm 361 x 520
La Valletta (Malta), Cocattedrale di San Giovanni, oratorio

sgiovanni

Non sappiamo di preciso quando Caravaggio sia sbarcato a Malta. Secondo alcune fonti il pittore giunge sull’isola il 12 luglio 1607, a bordo di una galera, salpata da Marsiglia per ordine di Fabrizio Sforza Colonna, che aveva fatto scalo prima a Genova e poi a Napoli. Qui Caravaggio, inseguito dal mandato di cattura per l’omicidio di Ranuccio Tomassoni, aveva trovato per qualche mese rifugio e lavoro, ma forse non sentendosi più abbastanza sicuro, o forse allettato dal sogno di entrare a far parte del prestigioso Ordine militare, l’artista affronta la traversata. Narra infatti Bellori, nella sua biografia del pittore, che «Caravaggio desideroso di ricevere la Croce di Malta solita darsi per gratia ad huomini riguardevoli per merito e per virtù, fece però risolutione di trasferirsi in quell’Isola, dove giunto fù introdotto avanti il Gran Maestro Vignacourt Signore Francese».

Alof de Wignacourt, gran maestro dell’Ordine, originario della Piccardia in Francia, è uomo d’arme sensibile all’arte, e a Caravaggio commissiona un suo ritratto in armatura da parata, con accanto un paggio che gli regge il cimiero. Soddisfatto del ritratto, e dopo forse avergliene richiesto un altro a mezzo busto, de Wignacourt ricompensa Michelangelo nominandolo il 14 luglio 1608 “Cavaliere di Grazia”, non potendo il pittore ambire a far parte dei “Cavalieri di Giustizia”, titolo riservato ai nobili. Inoltre de Wignacourt gli commissiona una grande tela con la Decollazione del Battista, da collocare sull’altar maggiore dell’oratorio della chiesa di San Giovanni.

È un’opera capitale nell’intera produzione dell’artista, giudicata da molti il più importante quadro della pittura occidentale. Caravaggio allestisce l’esecuzione davanti alle nude mura del carcere, su cui le figure spiccano alla luce radente di un sole all’imbrunire. Il carnefice ha appena tagliato il collo del Battista con la spada che giace a terra, e si appresta a dare il colpo di grazia con lo spadino che estrae dal fodero legato sulla schiena. Accanto a lui il carceriere con le pesanti chiavi alla cintura, indica imperiosamente il vassoio che una impassibile Salomè offre. Impotenti e senza parole, assistono al misfatto la vecchia che stringe disperata le mani al volto, e i due prigionieri che fanno capolino da dietro l’inferriata, sul fondo.

Particolare sconvolgente e celeberrimo è il rivolo di sangue che si sparge a terra, davanti al corpo del santo, in cui Caravaggio ha vergato le parole «f. MichelA...», ovvero la sua firma preceduta dalla forma abbreviata di “frater”, con riferimento alla sua appartenenza alla Confraternita dei Cavalieri. Su questo particolare, unico e totalmente nuovo nella storia dell’arte, molto si è scritto e si è discusso. È forse il sintomo del suo rimorso per la disordinata e violenta condotta di vita? O forse la fascinazione del sangue, che nella sua opera scorre e sprizza a fiotti incontenibili? Di certo l’immedesimazione con il martire Giovanni, precursore di Cristo e “voce che parla nel deserto”, può avere qualche riferimento alla personalità dell’artista, ma è ancor più probabile che questa sorta di macabra messa in scena sia da mettere in relazione con l’attività di soccorso ai condannati a morte svolta dalla Compagnia della Misericordia che aveva sede nella chiesa.

Il tema verrà poi ripreso dai seguaci di Caravaggio, a volte con minor vigore espressivo, come nel caso di Massimo Stanzione (Decollazione di san Giovanni Battista), oppure con virtuosistico sfoggio di carni martoriate e sanguinanti: si veda, per esempio, il surreale San Giovanni Battista decollato di Mattia Preti.